Lo so, qualcuno rischierà un attacco di orticaria al solo pensiero, ma anche stavolta i Francesi sono arrivati prima di noi.
Anzi LE Francesi.
Stiamo parlando delle donne nel mondo del vino, a guida delle loro Maison o eredi di aziende vinicole da capogiro.
Perché in Francia, in particolare in Champagne e Borgogna, da decenni le Maison o i Domaine sono stati oggetto di passaggio di padre in figlia.
Tante le storie da raccontare; per tutte scegliamo quella di colei che è divenuta emblema della nuova era enologica francese, la donna che si è guadagnata, meritatamente, l'appellativo di "Regina di Borgogna" da almeno trent'anni a questa parte: Madame Lalou Bize-Leroy.
Papà Henry Leroy la battezzò, a pochi mesi dalla sua nascita, bagnandole le labbra con poche gocce del Musigny 1929, così che fosse chiaro il suo destino. Lei che era già nel pieno dell'attività in vigna e in cantina nel 1954, a soli 23 anni, quando in Europa ancora si respirava la polvere delle macerie della Seconda Guerra Mondiale e il lavoro era l'unico riscatto per sperare nel boom economico.
La sua personalità, determinata e indomita, ha segnato fin da subito il Domaine De La Romanée-Conti, faro direzionale di ogni vigneron francese e del mondo: dopo l'incontro con Nicolas Joly e l'approfondimento dei principi della biodinamica di Rudolf Steiner, la maison di famiglia inizierà infatti il processo di conversione al biologico e alla biodinamica, nel 1973.
Ma è nel 1988 che Lalou fonderà Domaine Leroy e con esso scalerà le vette della superlega assoluta dei produttori di vino, scalzando il Domaine de la Romanée Conti dai vertici dei vini più costosi al mondo.
E in Italia?
Sulla scia di ciò che è accaduto in Francia, nella seconda metà del Diciannovesimo secolo anche in terra italica le donne hanno iniziato a far sentire la loro voce e il loro palato. Nomi altisonanti, come quello di Donatella Cinelli Colombini, fondatrice dell'Associazione Nazionale Donne del Vino e promotrice del Movimento Turismo del Vino, sono diventati veicolo di promozione e divulgazione di un modo nuovo di vedere il mondo vinicolo.
La visione femminile, laddove si è mantenuta integra e non normalizzata ad una dimensione patriarcale della produzione vinicola, ha sempre fatto la differenza. Non solo nella capacità di comunicazione del vino, ma anche propriamente nella capacità di quest'ultimo di raccontare un territorio, cogliendone sfumature e peculiarità che nei decenni sembrano essere venute meno.
E non è così scontato, se pensiamo che fino a pochi decenni fa il mondo agricolo era pertinenza quasi esclusiva dell'universo maschile e che, nell'immaginario anche attuale, una produttrice di vino è ancora vista come una eccezione alla regola.
A noi piace pensare invece che il futuro del vino sia donna: non solo perché aumenta il numero di appassionate ed esperte della degustazione, ma anche perché la produzione vinicola si caratterizza sempre più per la presenza di donne alla guida di aziende ereditate o fondate ex-novo.
Anche la Tuscia non sembra venire meno a questa tendenza: in un territorio in cui anche solo fare vino è atto di resistenza, quando a farlo è una donna, lo è ancora di più.
Lo testimoniano i tanti casi di aziende giovani, nate dal recupero di vigneti abbandonati o di vitigni a rischio di estinzione intorno al Lago di Bolsena; aziende che sempre più spesso hanno un volto femminile e un approccio naturale del microcosmo vinicolo.
E' il caso di Poggio Bbaranello.
Silvia e Lisa, giovane coppia in azienda e nella vita, hanno scelto di recuperare un vecchio podere sul poggio più ventoso di Montefiascone, dove il Baranello, da nord, soffia impetuoso a liberare l'orizzonte fino all'Argentario. La loro può sembrare una storia come tante: l'abbandono della vita frenetica della città per riscoprire ritmi più consoni ad una vita umana nella campagna viterbese. Ma nel loro progetto, lungimirante e complesso, c'è molto di più: innanzitutto una produzione vinicola legata a metodi naturali e biodinamici; il recupero di vitigni locali, come il Trebbiano Giallo o Roscetto, con un legame profondo e ancestrale col territorio. E poi c'è l'aspetto sociale del loro lavoro: la volontà di costruire un sistema di supporto e cooperazione con gli altri produttori della zona e un rapporto etico con i lavoratori stagionali che collaborano in vigna o in fase di vendemmia. Perché i vini devono essere frutto di un'etica globale.
Su questa stessa scia sembra orientata un'altra realtà vinicola della Tuscia: Geremivini.
La zona è ancora il bacino vulcanico del Lago di Bolsena, ma spostata più a nord, dove il tufo domina i colori della terra e infuoca ancor più le temperature estive. Qui Miriam Mareschi, col supporto del fratello Renato, ha iniziato a produrre vino un po' per gioco e un po' per seguire il filo che riconduceva alle sue origini familiari, fatte di ospitalità, cucina e territorio. La visione di Miriam ha segnato le scelte aziendali nel profondo, guidandole verso un approccio naturale della vinificazione e della coltivazione della vite. E, quasi fosse una scelta connaturata e inevitabile, la riscoperta di vitigni tradizionali del territorio per rievocare atmosfere perse nel tempo.
E poi c'è la Tuscia del sud, al di qua dei Monti Cimini.
Cristina Antonozzi, dell'azienda vinicola Carla Onofri, è la nuova generazione che si candida a prendere in mano le redini dell'azienda di famiglia. Su un territorio plasmato da un'intensa attività vulcanica ormai sopita, Carla Onofri è presente da oltre vent'anni, in simbiosi con il tufo dell'antica cantina e quello misto a peperino che genera i suoi vini. Una visione appassionata e lungimirante ha condotto Cristina, insieme al fratello, a segnare il futuro dell'azienda: non più una produzione di massa, ma la qualità della coltivazione e la tradizionalità della vinificazione, per imbottigliare vini dalla forte potenza evocativa di un territorio vocato da secoli.
Abbiamo scelto di celebrare la Festa Internazionale della Donna attraverso queste piccole realtà della Tuscia, consapevoli che il futuro è e sarà donna!
Il vostro sommelier